Volevo scrivere questo post il
14 ottobre, il giorno del quarto compleanno di mia figlia e poi scriverne un
altro il 20 ottobre, per ricordare il giorno in cui, esattamente cinque anni fa
ho scoperto di aver perso il mio primo bambino; ma il mio computer era via in
riparazione e ho dovuto aspettare fino ad oggi. Così, quei due post
diventeranno uno. Probabilmente doveva andare così perché le storie dei due
post sono strettamente legate tra loro.
Inizierò dal post che avrei
scritto il 20 ottobre.
Durante l’estate 2008 e il mio
(allora) fidanzato avevamo deciso di iniziare a “metterci in pista” per avere
un bambino; pensavamo fosse un po’ presto, ma poiché eravamo entrambi convinti
che per ragioni personali ci avremmo impiegato un po’, abbiamo deciso che era
meglio provarci prima possibile. E invece, sono rimasta incinta al primo
tentativo! Abbiamo subito dato un nome al bambino: Lenticchia. Eravamo al
settimo cielo, non vedevamo l’ora (specialmente io) di poterlo dire alle nostre
famiglie e ai nostri amici, così quando ero incinta di appena 6 settimane lo
abbiamo spifferato alle nostre famiglie, alla maggior parte dei nostri amici e
ai colleghi di lavoro. Sapevo che 1 gravidanza su 3 si conclude, purtroppo, con
un aborto spontaneo, ma pensavo che non potesse succedere proprio a me. A 6 e 9
settimane ho avuto delle perdite, ma sono bastate due ecografie per
rassicurarci: Lenticchia stava bene e il battito del suo cuoricino era
perfetto.
Nonostante la nausea costante,
stavo benissimo, mi sentivo bellissima, felice e camminavo parlando
continuamente (non a voce alta) con il mio bambino.
Allora lavoravo a Renfrew e il
viaggio (autobus poi treno poi ancora autobus) mi faceva sentire ancora di più
la nausea (a volte dovevo precipitarmi in bagno appena arrivata a scuola, o tra
un’ora e l’altra!), ma nonostante ciò andava bene così. Mi trovavo in un tale
stato emotivo per cui potevo scoppiare a piangere o a ridere per un nonnulla.
Era per me uno stato mentale completamente nuovo.
Era arrivata la data dell’ecografia
delle 12 settimane (credo che in Italia sia quella della traslucenza nucale),
non ce la facevo più ad aspettare! La notte prima avevo sognato che il bambino
(o bambina) aveva la sindrome di Down, ma al mattino non l’avevo raccontato ad
Ale (come faccio di solito con qualsiasi sogno) perché mi sembrava una
sciocchezza. Ora so che non era una sciocchezza: il mio corpo mi stava,
probabilmente, dando dei segnali che solo il mio inconscio ha recepito, e che
mi ha mandato attraverso il sogno.
Così, belli contenti siamo
andati a fare l’ecografia, smaniavamo dalla voglia di vedere come stava
crescendo il nostro bebè, quanto grande fosse ora, e tutte quelle altre cose
che ci si aspettano da un’ecografia.
Quando siamo arrivati l’ecografista
ci ha chiesto se per noi fosse un problema se una studente era presente mentre
lei faceva l’ecografia. Le abbiamo detto che andava bene allora l’ha fatta
entrare. Era una donna davvero bella, di circa 25/30 anni e con un bellissimo
pancione!
Mi sono stesa sul lettino e l’ecografista
ha iniziato a mettermi un po’ di gel sulla pancia.
Appena cominciato ho
immediatamente visto il mio piccolo (piccola?) sul monitor. Mi sembrava che ci
fosse qualcosa che non andava, ma l’ecografista sembrava felice e spiegava alla
studentessa che cosa vedeva. Tutto quello che io riuscivo a vedere era che il
mio bimbo non si muoveva come aveva fatto le altre volte, sembrava piuttosto
che si spostasse solo quando l’ecografista passa sulla mia pancia il doppler
per l’ecografia. Ad un certo punto l’ecografista è diventata silenziosa, mi
aveva detto che stava impostando il monitor per mettere in risalto alcuni
colori che le avrebbero permesso di vedere bene il cuore, perché stava facendo
fatica a trovare il battito. Non ha parlato per un tempo che allora mi è
sembrato infinito, ma probabilmente non era più di un minuto.
Poi si è girata verso me e mi
ha detto “Mi dispiace. Mi dispiace, non sento il battito del cuore del bambino,”
e ha continuato a parlare, probabilmente mi stava giusto spiegando che questo
significava ufficialmente che non c’era un battito cardiaco da
rilevare,e continuava a spiegarmi non so cosa. Il mio cervello si era
disconnesso, spento; mi sono alzata, ho tirato su i pantaloni, mi sembrava di
muovermi come fossi un robot. L’ecografista mi ha detto che stava per arrivare
una midwife (che il dizionario tradurrebbe con ostetrica, ma siccome non è
esattamente così, terrò il termine MW) che mi avrebbe chiarito cos’era accaduto
e mi avrebbe spiegato cosa si poteva fare; continuava a ripetermi che le
dispiaceva, e le sue parole erano sincere, si vedeva, ma suonavano così
distanti. Non potevo credere che stesse succedendo proprio a me. Avevo le
lacrime agli occhi. Alessandro era con me, sotto shock, paralizzato dalla
notizia, ma io continuavo a sentirmi sola, persa in un enorme buco nero.
Una parola continuava a
ronzarmi in testa: morto, morto, morto.
Quando è arrivata la MW, ha
accompagnato me e Alessandro in un’altra stanza piccola con tre sedie e un
piccolo tavolino; ci ha spiegato che avevo avuto un aborto silenzioso (perché
allora non sapevo che esistesse una cosa simile?) e ci ha spiegato quali
opzioni avevo. L’ascoltavo e sapevo che stava a me decidere, ma avrei voluto
così tanto che qualcuno potesse decidere per me. Volevo che mi dicesse “Penso
che la cosa giusta per te sia A, o B o C.” Ma non poteva farlo (per etica
professionale), e non l’avrebbe fatto.
Ce ne siamo andati e ci è
stato chiesto di richiamare più tardi per fargli sapere che cosa volevamo fare.
Non mi ero mai sentita così
vuota. Non c’era più una ragione per continuare ad accarezzare la mia pancia,
non c’era vita là dentro, il cuore del mio bambino si era fermato una settimana
prima; e allora perché, perché io non me ne ero accorta? Questo pensiero stava
aggiungendo dolore alla mia sofferenza.
Una volta a casa, abbiamo
chiamato le nostre famiglie e gli abbiamo dato la brutta notizia, poi abbiamo
chiamato i nostri amici più strettie lo abbiamo detto anche a loro. Stavano
tutti aspettando le nostre notizie. E tutto quello che riuscivo a dirgli era “Ciao…
dall’ecografia è risultato che non c’è più battito. Abbiamo perso il bambino.”
Ho pianto con Ale e lui ha
pianto con me. Ho deciso di fare un raschiamento, la shock era già troppo
forte, e io non volevo vedere il mio corpo abortire.
Due giorni dopo sono andata in
ospedale e il mio primo bambino è stato portato via; non l’ho mai visto o
vista, non so quanto piccolo/a fosse. Non so nemmeno perché mi abbia ha
lasciato. E non lo saprò mai.
Mia mamma è venuta a stare da
me per un po’, e anche se allora le avevo detto che non era necessario, le sono
davvero grata per essere stata con me. Perché è mia mamma; perché ci è passata
prima di me; perché ci sono alcune cose che soltanto una mamma può capire.
La famiglia, gli amici e i
miei colleghi sono stati fantastici e non mi sono mai pentita di aver parlato
con tutti loro della mia gravidanza quando ero incinta di solo sei settimane.
Se non gliene avessi parlato sarebbe stato molto più difficile tornare al
lavoro (non sarei mai potuta rientrare facendo finta di essere stata in
malattia per una semplice influenza, quando continuavo a piangere
costantemente) sarebbe stato impossibile uscire e socializzare (non avevo
voglia di uscire e divertirmi, allora i miei amici venivano spesso a passare del
tempo con noi a casa), o anche solo telefonare a casa.
Ancora però alcune persone mi
dicevano “Non ti preoccupare, ci saranno altre gravidanze,” o “Non sei la prima
a cui accade, purtroppo succede spesso,” o ancora “Sono sicura che la prossima
volta andrà tutto bene.” Lo so che lo dicevano per farmi stare meglio e non per
ferirmi, ma il mio solo pensiero era “Non puoi giusto dirmi ‘Mi spiace’ o ‘Piangi,
sentiti in lutto se ne hai bisogno’ o qualsiasi cosa simile?”
So che un aborto non significa
che non ci possano essere altre gravidanze (Betta e Tilda ne sono una prova
molto vivace!), ma una mamma è mamma dal momento in cui scopre di essere
incinta, e quel bambino dentro di lei diventa suo figlio subito, non deve
aspettare di nascere. Perciò anche se ci saranno nuove gravidanze, questo non
significa che quella mamma potrà dimenticare quel bambino che voleva così tanto
e che l’ha lasciata troppo presto, solo perché avrà altri bambini. Riuscirebbe
mai una mamma con tre bambini a dire “Oh, fa niente se ne perdo uno, tanto ne
ho altri due!”? No, non ci riuscirebbe. E anche se il paragone sembra sciocco,
credetemi, non lo è.
Sapevo di non essere la prima
(e purtroppo nemmeno l’ultima), ma questo non faceva, e ancora non fa nessuna
differenza.
E sentirmi dire “Vedrai che la
prossima volta andrà tutto per il meglio,” era solo come una pugnalata nella
schiena (seppur involontaria) perché quando hai un aborto non riesci a smettere
di pensare che forse c’è qualcosa che non va, che il tuo corpo forse non riesce
a portare avanti una gravidanza e così via.
Quindi la prossima volta che
avete davanti a voi con una donna che ha avuto un aborto, offritele
semplicemente la spalla e ditele “Mi dispiace.”
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E questa è la seconda parte
del mio blog, fortemente legata alla prima perché quattro mesi dopo l’aborto ho
scoperto di essere nuovamente incinta. Ero terrorizzata. Volevo così tanto
diventare mamma, ma avevo troppa paura di “farmi coinvolgere” e di soffrire di
nuovo come la prima volta (non ho mai pianto così tanto come per quell’aborto,
strillavo e gridavo mentre piangevo). Questa gravidanza procedeva bene, ma ho
cominciato a viverla serenamente solo dopo aver raggiunto le 20 settimane, e in
realtà fino al momento in cui non ho visto la mia Betta per la prima volta, ho
avuto paura che qualcosa potesse andare storto.
Così qui di seguito, come da
tradizione per ogni compleanno, trovate la storia della nascita di Betta, come
l’ho scritta alcuni giorni dopo la sua nascita. Se dovessi riscriverla oggi
sarebbe diversa, perché ogni volta che racconto questa storia, viene sempre
fuori qualcosa di nuovo. E perché oggi so tante cose che non sapevo allora. Qui
avete il racconto originale:
La nascita di ELISABETTA
Elisabetta è nata mercoledì 14 ottobre 2009 alle 5.15 del
mattino, un fagottino di kg 3,150 (non male per una piccolina come me!) dopo
tre giorni di travaglio.
Non siamo riusciti ad avere il tanto desiderato parto in
casa e alla fine ho dovuto sottopormi ad un cesareo d’emergenza.
Nonostante ciò, inutile dirlo, ne è valsa certamente la
pena ed è stata un’esperienza unica.
Ho cominciato ad avere contrazioni la domenica mattina
(11 ottobre), alcune ore prima che mia suocera arrivasse dall’Italia. Di sera
le contrazioni erano già diventate “più forti, più lunghe, più vicine.” Sono
andata a letto e le contrazioni sono continuate con una frequenza di una ogni
7/10 di minuti, pensavo quindi di poter continuare a stare tranquilla a casa
senza avvisare l’ospedale, ma mia suocera mi aveva detto che era probabilmente
ora di chiamare, e così abbiamo chiamato l’ospedale alle 2am è arrivata la
midwife. La MW mi ha confermato che le mie erano vere e proprie contrazioni e
non Braxton Hicks, ma non c’era dilatazione perché la testa della bambina non
era nella posizione giusta. Così durante i due giorni successivi sono venute a
visitarmi diverse MW, ma le cose erano abbastanza stazionarie (e la dilatazione
di solo 1 cm). La mattina del martedì sono andata in ospedale dove mi hanno
somministrato della morfina (qualcosa di cui ora mi pento!) per farmi riposare
un po’ visto che non dormivo da più di 48 ore e iniziavo a sentirmi distrutta,
molto stanca (e questa non era una buona cosa se dovevo prepararmi a spingere
nelle ore successive).
Sono tornata a casa nel pomeriggio e alle 10 di sera è
arrivata mia mamma, ero davvero felice che fosse lì con me; pochi minuti dopo
la mezzanotte, mi si sono rotte le acque! Mi sono subito resa conto che non
erano così limpide come avrebbero dovuto essere allora, io e Alessandro abbiamo
deciso di andare subito all’ospedale (potevamo sempre tornare a casa se tutto
era a posto - o almeno questo è quello che pensavo allora).
All’ospedale ci hanno confermato che c’era un po’ di
meconio nelle acque. Dopo più di 48 ore ero dilatata di soli 3 centimetri. A
quel punto è iniziato il monitoraggio: ero ferma a letto con i fili del monitor
e con la flebo per l’induzione al braccio. Dal tracciato arrivavano segni di “fastidio”
da parte della mia piccola e, secondo il medico, il tracciato mostrava che c’era
anche il cordone ombelicale che si era attorcigliato da qualche parte (ma
avremmo scoperto solo alla nascita dove). Erano circa le 3.30 e le mie
contrazioni erano più forti che mai, la MW era sorpresa di come riuscissi a
stare tranquilla e superare ogni contrazione solo con la respirazione e con l’entonox
(gas & air).
A questo punto la dottoressa che era già venuta in
precedenza a controllare il tracciato, mi ha proposto di fare un epidurale, ma
mi ha detto che non stavo progredendo a causa della posizione della testa della
bambina, e che secondo lei non mi sarei dilatata oltre. Tutto quello che
desideravo in quel momento era non danneggiare la bambina e avere la certezza
che nascesse in maniera sicura (come sono cambiate le mie idee oggi riguardo a
cosa significhi sicura - ndA), così ho acconsentito ad un cesareo d’emergenza.
Mi hanno fatto l’epidurale, e poi anche lo spinale, che non erano ovviamente
nei miei piani, ma così in meno di un’ora ho potuto incontrare la mia
meravigliosa bambina.
Aveva il cordone attorcigliato intorno alla gamba, ma per
il resto stava benissimo!
Me l’hanno data appena finiti i controlli post cesareo e
abbiamo iniziato subito il contatto pelle-pelle e Betta si è attaccata al seno
in meno di 5 minuti! Non siamo riusciti ad avere il parto in casa che
desideravamo, ma l’esperienza è stata così intensa, e mi sento così orgogliosa
di aver superato tre giorni di travaglio solo utilizzando esercizi yoga e
respirazione (ho usato i TENS, ma devo ammettere che nel mio caso non sono
stati molto utili). Non posso negare di essere ancora turbata a causa di quel
cesareo perché so che ci sono alcune cose che avrei dovuto affrontare in
maniera differente e forse il mio travaglio sarebbe andato in maniera
completamente diversa.
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